sanità
22 Novembre 2022 L’incremento di dati di salute nelle reti informatiche rivoluzionerà le terapie e di qui la ricerca, la sanità, il sociale, creando ritorni economici e benessere. Queste parole di Harold Wolf aprono la presentazione a Roma del libro “I dati. Il futuro della sanità. Strumenti per una reale innovazione”
L’incremento di dati di salute nelle reti informatiche rivoluzionerà le terapie e di qui la ricerca, la sanità, il sociale, creando ritorni economici e benessere. Le parole di Harold Wolf, presidente e Ceo di Healthcare Information and Management Systems Society aprono la presentazione a Roma del libro “I dati. Il futuro della sanità. Strumenti per una reale innovazione”.
Curato da Francesco Frattini, Segretario Generale Fondazione Roche, e Fausto Massimino, Direttore Generale Fondazione Roche e realizzato con Edra SpA, il volume raccoglie i contributi di 39 tra esperti e ricercatori. E si sofferma sui problemi di interoperabilità dei sistemi informatici nonché sulle prospettive della condivisione dei frutti della ricerca, delle elaborazioni in pratica clinica e delle informazioni di registri pubblici o privati. Dal volume come dalla presentazione di Wolf emerge un concetto: i dati sottochiave non servono a nessuno. In Italia, in particolare, il patrimonio dei dati dei pazienti del Servizio sanitario è sottoutilizzato, sia per le differenze di gestione a livello territoriale e di singole strutture, sia per approcci conservativi da parte dei soggetti pubblici e privati. Mentre inauguriamo due grandi utilizzatori di big data, Human Technopole a Milano e il Tecnopolo Bologna che ospiterà Leonardo, quarto computer al mondo per capacità, le nostre leggi sulla protezione dei dati personali continuano ad essere interpretate in senso restrittivo. «Gran parte dell’attività sui dati si ferma quando dobbiamo trasporli da informazioni a basi della conoscenza clinica», spiega Paolo Marchetti, direttore scientifico IDI e componente dell’Istituto superiore di Sanità. E fa l’esempio dell’oncologia, dove «le piattaforme di big data hanno cambiato negli ultimi anni le terapie con grandi risultati in termini di efficacia».
«La spesa per le analisi bioptiche sui tessuti tumorali che oggi ci servono a mirare le cure è spesso molto vicina al costo di una profilazione genomica che ci darebbe più conoscenze e sarebbe di utilità clinica superiore per il paziente. Oggi il modello istologico ci fa prevedere una maggiore o minor probabilità di risposta ad un trattamento in funzione delle alterazioni riscontrate sulle cellule dei tessuti. Ma disponiamo di trattamenti a bersaglio molecolare che con un esame di next generation sequencing identificano fattori predisponenti e risposte farmacologiche». Risultato? «Al momento nel mondo –dice Marchetti– per il tumore al polmone abbiamo 11 farmaci disponibili per altrettante tipizzazioni della patologia; in Italia il SSN ne rimborsa solo quattro perché usa i dati del vecchio modello e non abbiamo dati per far entrare il paziente dalla parte giusta. La carenza ci impedisce altresì di conoscere le tipizzazioni genetiche che frenano l’espressione di terapie di ultima generazione, togliendo mesi ed anni di vita ai pazienti».
Dati dunque fondamentali nella ricerca. Ma che vengono frenati da leggi antiquate come nel caso della privacy, esemplificato da Maurizio De Cicco, AD di Roche. «Negli studi retrospettivi è difficile, e difficilissimo per le malattie rare, raccogliere consensi al trattamento di informazioni relative a pazienti e familiari deceduti anni prima. Se ne disponessimo, conosceremmo l’efficacia di certe terapie e la spesa per i farmaci si sarebbe già potuta orientare diversamente. La legge Lorenzin 3 del 2018 apriva possibilità sull’uso dei dati a fini di ricerca e definì regole che avrebbero conferito competitività all’Italia. Il prossimo gennaio entra in vigore il regolamento europeo sulle sperimentazioni e tuttora non vediamo decreti attuativi di quella legge di 5 anni fa». Guido Scorza Componente del Garante per la protezione dei dati, replica sottolineando come il regolamento europeo sulla protezione dei dati personali nasca per facilitare i trattamenti, anche a scopo di ricerca, salvaguardando al tempo stesso la dignità della persona e ben si integra con il Codice nazionale della Privacy salvo quando in campo autorizzativo si chieda consenso per trattare dati di chi non c’è più. «Di simili autorizzazioni ne sono state chieste meno di 10 in due anni, e timidamente, mentre andrebbero semplicemente spiegati l’uso che si vuol fare di quei dati e gli obiettivi». A Scorza risponde a sua volta indirettamente Luca Pani riferendo di uno studio dell’Università di Modena e Reggio Emilia con INMI Spallanzani, 27 partecipanti a trial di nazioni diverse: alla domanda “cosa volete fare dei vostri dati” quasi tutti rispondono che dopo il decesso non avrebbero problemi a che tali informazioni fossero utilizzate a scopi di ricerca. Beninteso, non di profitto. E anche su questo confine i legislatori spesso si riservano dei margini di discrezionalità.
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