Governo e Parlamento
20 Gennaio 2023 Portare entro il 30 giugno 2026 da 400 mila a 1,5 milioni il numero di ultra 65enni assistiti a casa: è questo forse l’obiettivo più ambizioso alla voce sanità del Piano Nazionale di ripresa e resilienza che l’Italia è chiamata a realizzare
Portare entro il 30 giugno 2026 da 400 mila a 1,5 milioni il numero di ultra 65enni assistiti a casa: è questo forse l’obiettivo più ambizioso alla voce sanità del Piano Nazionale di ripresa e resilienza che l’Italia è chiamata a realizzare. Dei 20 miliardi erogati dall’Unione Europea alla voce sanità, l’assistenza domiciliare pesa per 2 miliardi; le è legata in parte la voce “telemedicina” che cuba un miliardo e un altro miliardo valgono gli ospedali di comunità per le cure intermedie. Inoltre, per l’ADI c’è lo stanziamento da 734 milioni vincolato nel Decreto legge Rilancio 34 del 2020: in tutto dunque ci sono 2,7 miliardi da ripartire tra le regioni per la sola ADI quest’anno, e il riparto è alle porte come ha annunciato il ministro della Salute Orazio Schillaci alla Commissione Affari Sociali della camera, anticipando le linee generali del nuovo disegno di legge sulle “deleghe al governo in materia di politiche in favore delle persone anziane”. Il nodo è il seguente: i 2 miliardi di Bruxelles arrivano se i progetti si realizzano, se cioè ogni anno a livello nazionale ai 400 mila nostri assistiti se ne aggiungono per 4 anni altri ancora, 296 mila quest’anno, 229 mila nel ’24 e via dicendo. Ma per mettere in linea pazienti servono medici ed infermieri, di questi ultimi ne mancano all’appello 70 mila. E ad oggi solo 13 regioni su 21 (includendo le province autonome) hanno presentato loro requisiti per l’accreditamento dei soggetti erogatori di cure domiciliari, requisiti i cui criteri sono stati fissati dall’intesa stato-regioni del 4 agosto 2021. Tanto fa dire a Schillaci che la misurazione prevista nel PNRR di anno in anno verrà eseguita su un 10% medio nazionale anziché considerare regione per regione. Si terrà così conto delle specifiche difficoltà di singole regioni.
Per l’accreditamento degli erogatori hanno prodotto linee guida Lombardia, Piemonte, Lazio, Umbria, Abruzzo per il Centro-Nord e di Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna per Sud ed Isole. Veneto, Emilia Romagna e Toscana hanno deciso di erogare l’ADI solo all’interno del servizio pubblico. Non è tutto: entro agosto 2022 le regioni, tutte e 21, dovevano attivare un sistema di accreditamento: ad oggi sono quasi pronte Lazio, Lombardia e Sicilia. Lo stallo non aiuta la crescita della piattaforma SIAD dove viene trattato il flusso informatico dei dati dei pazienti assistiti. A margine dell’intesa di un anno e mezzo fa, lo Stato centrale dettava alle regioni in allegato A) i criteri per candidarsi erogatori, in allegato B) i requisiti per essere autorizzati dalla regione di appartenenza ad entrare nelle case ed in allegato C) i requisiti per essere accreditati, cioè erogare prestazioni – anche nuove – coperte dal servizio sanitario locale, ma tendenzialmente da quello nazionale (in altre parole inserite nei Livelli essenziali di assistenza). Nello specifico, l’allegato A chiede di garantire soluzioni legate alle esigenze di cura dei pazienti, di aderire il più possibile a percorsi diagnostico-terapeutici validati, di consentire la verifica dei processi, la formazione degli operatori, la comunicazione e l’umanizzazione, l’appropriatezza degli interventi e processi di miglioramento-innovazione; l’allegato B chiede requisiti strutturali di dotazione locali e personale, apparecchiature e relativi servizi di manutenzione, uso del fascicolo sanitario domiciliare, processi di valutazione della sicurezza, del rischio clinico e della qualità dei servizi erogati, documentazione dei risultati raggiunti; l’allegato C richiede atti in continuità con l’ospedale, quali l’individuazione dei soggetti che trattano la documentazione in caso di dimissioni protette, fascicoli sanitari calibrati sui tre livelli d’intensità assistenziale, sistemi informativi che assicurino la tracciabilità dei dati. E chiede la definizione di un piano triennale. Nessuno di questi documenti indica però delle catene organizzative di presa in carico dei problemi. Per capire come ingegnerizzare gli interventi si sperimenta: ogni regione presenterà un progetto Adi in cui siano contemplate anche prestazioni di telemedicina.
«L’assistenza domiciliare è tema di grande complessità, e soprattutto non è una ma ce ne sono varie», dice Vittorio Boscherini già segretario Fimmg Toscana e tra i testimoni della nascita delle Società della Salute nella sua regione. «Nella sola Toscana che ha deciso di erogare l’Adi attraverso i servizi pubblici, ci sono almeno due modelli: un’Adi sanitaria a cura del medico di famiglia e dell’infermiere che coinvolge talora i medici specialisti ambulatoriali territoriali e si svolte a carico dell’Asl; e un’Adi sociale che è a carico dei comuni, è imperniata sugli assistenti sociali, non include i medici di famiglia. Ora, non solo le due Adi rispondono a due regìe diverse, ma nascono alla radice da criteri diversi, la sanitaria risponde al criterio di coprire “tutti e il prima possibile”, l’assistenza sociale usa criteri rivolti a garantire prestazioni per fasce di reddito, ergo quando serve l’erogazione di servizi integrati come l’Adi cui il PNRR ambisce, le due regìe –rispondendo a percorsi d’attuazione diversi– di rado riescono a coordinare i servizi e le loro tempistiche. In Toscana avevamo istituito una figura di gestore unico dei servizi sociali e sanitari che si identificava nella Società della Salute partecipata dai sindaci. Quest’ultima a sua volta agiva attraverso i consorzi sociosanitari ma non ha preso il volo: la difficoltà è rimasta nel fatto che i sindaci dovrebbero assumersi responsabilità di firma per atti anche a valenza sanitaria. Con il PNRR la mancanza un gestore unico dell’Adi si inizia a sentire in tutte le regioni, sia quelle che internalizzano i servizi sia quelle che li appaltano a privati con criteri in parte da definire».
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