sanità
28 Marzo 2023 Nel 2013 la Fondazione GIMBE lanciò la campagna “Salviamo il nostro Servizio sanitario nazionale”, avvertendo che la perdita del diritto alla salute per gli italiani sarebbe avvenuta lentamente. Dieci anni dopo, «la crisi sta raggiungendo il punto di non ritorno» spiega Nino Cartabellotta presidente della Fondazione
Nel 2013 la Fondazione GIMBE lanciò la campagna “Salviamo il nostro Servizio sanitario nazionale”, avvertendo che la perdita del diritto alla salute per gli italiani sarebbe avvenuta lentamente. Dieci anni dopo, «la crisi sta raggiungendo il punto di non ritorno» spiega Nino Cartabellotta presidente della Fondazione che terrà la sua 15ma conferenza nazionale a Bologna dopodomani. Tanto avviene tra l’indifferenza dei Governi alternatisi negli ultimi 15 anni che non hanno investito sulla salute «e hanno ignorato che la sanità pubblica è un pilastro della democrazia, che il livello di salute e benessere della popolazione condiziona la crescita del Paese e che la perdita di un SSN universalistico porterà ad un disastro sanitario, sociale ed economico senza precedenti». A Bologna, Cartabellotta presenterà un Piano di rilancio del Servizio Sanitario Nazionale, arricchito grazie ad una consultazione pubblica, da utilizzare come riferimento per monitorare scelte e azioni dei “decisori”. Intanto, a premessa della sua relazione, il presidente Gimbe constata con amarezza come l'emergenza COVID-19 non abbia rinforzato la sanità pubblica ma l’abbia semmai indebolita: i finanziamenti sono andati all’emergenza e adesso che le leggi Finanziarie hanno messo un tetto tendenziale sotto il 6,5% del Pil al Fondo sanitario nazionale, le Regioni rischiano di tagliare i servizi. Intanto, l'autonomia differenziata in corso di attribuzione alle regioni più ricche potrebbe dare il colpo di grazia alla tutela uniforme del diritto alla salute lungo la Penisola. Tutela che, come vedremo da anni, manca mentre crescono nel Paese diseguaglianze e povertà complessiva.
Italiani più poveri - Secondo una recente audizione Istat la quota di persone che hanno dovuto rinunciare a prestazioni sanitarie dal 2019 al 2021 è salita dal 6,3% all’l’11,1%, anche se nel 2022 si stima un recupero con una riduzione al 7%. Della spesa sanitaria totale, 168 miliardi, ben 41 miliardi sono ormai di spesa privata, sostenuta per 36,5 miliardi dalle famiglie e per 4,5 miliardi da fondi sanitari ed assicurazioni. Questi ultimi godono di consistenti agevolazioni fiscali, perché erano nati per integrare le prestazioni non offerte dal SSN (odontoiatria, long term care), ma di fatto per circa il 70% erogano quanto il SSN già offre tramite la sanità privata accreditata. Quest’ultima eroga da metà i quattro quinti della salute: stando all’annuario statistico Ssn, nel 2021 erano private accreditate il 48,6% delle strutture ospedaliere; il 60,4 di quelle di specialistica ambulatoriale, l’84 di quelle deputate all’assistenza residenziale e il 71,3 di quelle semiresidenziali, il 78,2% di quelle riabilitative. E si alimenta anche con i fondi sanitari di cui sono divenute gestori proprio le compagnie. Di qui, spiega Cartabellotta «i presunti vantaggi del welfare aziendale per i lavoratori iscritti ai fondi sono una mera illusione, perché il 40-50% dei premi versati non si traducono in servizi in quanto erosi da costi amministrativi e utili delle compagnie». Intanto chi non può assicurarsi paga. Nel 2020 oltre 600 mila famiglie hanno dovuto sostenere spese “catastrofiche”, e quasi 380 mila famiglie si sono impoverite per curarsi. «La politica – chiosa Cartabellotta –si è sbarazzata di una consistente quota di spesa pubblica per la sanità, scaricando oneri iniqui sui bilanci delle famiglie».
Crescono diseguaglianze geografiche - C’è poi il divario Nord-Sud già pesante da 13-15 anni e forse destinato ad ampliarsi. Guardando ai punteggi LEA nel decennio 2010-19, tra le prime 10 Regioni solo Umbria e Marche sono del Centro e nessuna è del Sud. Delle 11 regioni adempienti ai LEA nel 2020 è del Sud solo la Puglia: le altre regioni, eccetto Basilicata e Sardegna, sono in Piano di rientro con Calabria e Molise commissariate; ad attrarne i pazienti in oltre 9 casi su 10 nel 2020 sono state Lombardia, Emilia-Romagna e Veneto. Che hanno chiesto l’autonomia. Ci sono altre diseguaglianze meno note: tra aree urbane e rurali, tra uomini e donne, legate al grado di istruzione e di reddito –osserva Cartabellotta – ma intanto oggi in Italia si vive più a lungo ad alte latitudini, con la Provincia di Trento in testa (84,2 anni), e la Campania ultima con 80,9 anni. I LEA garantiti a tutti gli italiani sono stati aggiornati l’ultima volta a gennaio 2017, ma per mancanza di risorse non è stato approvato il “Decreto Tariffe” che offre certezze sull’accesso a prestazioni di specialistica ambulatoriale e protesica. «Innovazioni quali la procreazione medicalmente assistita, lo screening neonatale esteso, ausili e dispositivi all’avanguardia (es. apparecchi acustici digitali, protesi di ultima generazione, carrozzine basculanti) possono essere erogati solo dalle Regioni non in Piano di rientro con risorse proprie –dice Cartabellotta – così si generano ulteriori diseguaglianze e tenendo in ostaggio i diritti dei pazienti». Alla relazione di Cartabellotta a Bologna seguiranno due forum, il primo sul rilancio delle politiche per il personale ed il secondo sulla riorganizzazione dell'assistenza territoriale prevista dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. Nel pomeriggio si discute di Piani regionali di recupero delle liste d'attesa con il Ministero della Salute e si fa un punto sulla Legge Gelli-Bianco per la sicurezza delle cure a 6 anni dall’approvazione.
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