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Governo e Parlamento

23 Giugno 2023

Dispositivi medici, a che punto è il nodo payback? Gli ultimi aggiornamenti

Una proroga di altri 30 giorni per il pay-back sui dispositivi medici. Se ne parla in un emendamento al decreto legislativo 52 che coordina aspetti della nostra normativa sui medical device con i regolamenti europei già vigenti. Il rinvio però non accontenta i rappresentanti dei produttori e dei distributori che si lamentano della cifra da pagare e chiedono di ridiscutere il pay-back ad essi relativo


Dispositivi medici, a che punto è il nodo payback? Gli ultimi aggiornamenti

Una proroga di altri 30 giorni per il pay-back sui dispositivi medici, dal 30 giugno al 31 luglio. Se ne parla in un emendamento al decreto legislativo 52 che coordina aspetti della nostra normativa sui medical device con i regolamenti europei già vigenti. Il rinvio però non accontenta i rappresentanti dei produttori e dei distributori che si lamentano della cifra da pagare e chiedono di ridiscutere il pay-back ad essi relativo. Né li incoraggia un emendamento nel decreto-legge Enti in itinere in cui si prende atto che la disciplina sui DM va ridiscussa, ma entro il 2026. Il tempo stringe. La filiera deve versare 1,1 miliardi. Si tratta di poco meno di metà di quanto loro richiesto a ripiano dei “debiti” pregressi 2014-18. Ma il fatturato annuo del settore, da 112 mila addetti, è intorno ai 6 miliardi. Vediamo come si sono formati questi “debiti”, che tali non sono.

Negli ultimi 8 anni, le regioni hanno acquistato dispositivi medici spendendo più del dovuto. In questi casi dal 2015 il decreto 78, convertito in legge 125, prevedeva che in caso di deficit regionali, industrie e distribuzione rimborsassero il 50% dei loro eventuali surplus in modo da ripianare metà del passivo. Quattro governi non sono intervenuti ad applicare il decreto. Nel 2022 il governo Draghi lo ha applicato sugli sbilanci puntualmente verificatisi ogni anno a partire dal 2015, dividendo in due tranche la somma delle cifre dovute. Si tratta in tutto di 3,6 miliardi di euro, di cui 2,2 - relativi appunto al quadriennio 2015-18 - dovevano essere versati subito ad inizio 2023. Sarebbe stata una catastrofe soprattutto per i produttori ed i distributori più piccoli, quelli italiani. Perciò si è corsi ai ripari. Con decreto-legge 11 gennaio 2023, n. 4 (“disposizioni urgenti in materia di procedure di ripiano per il superamento del tetto di spesa per i dispositivi medici”), in vigore dal 28 febbraio, il parlamento ha inizialmente fatto slittare al 30 aprile il termine imposto alle imprese per versare i 2,2 miliardi. Il decreto Milleproroghe convertito in legge 14/23, a fine febbraio ha preso atto dello slittamento. Ma il problema restava la cifra. Il 30 marzo scorso, il nuovo decreto-legge 34 (“Bollette”) all’articolo 8 ha consentito alle aziende della filiera che non attiveranno contenzioso o che vi rinunceranno ove l’abbiano attivato, di versare entro il 30 giugno, in favore di ciascuna Regione, solo il 48 % dell'importo indicato nei provvedimenti regionali di ripiano, cioè 1.085 milioni, l’altra metà ce la mette lo Stato, che istituisce al Ministero dell’Economia un Fondo per coadiuvare il ripiano di quest’anno. Le aziende fornitrici di dispositivi medici che non rinuncino ai tribunali, devono invece versare la quota integrale decisa dalle regioni.

Intanto però le regioni, devono comunque ripianare il 50% del deficit totale entro aprile, senza sapere che decisioni prenderanno le aziende entro giugno. Una batosta anche per loro, ma forse per il paese le conseguenze peggiori arrivano dalle aziende, le più piccole sarebbero costrette a chiudere, e anche le più forti potrebbero lasciare un mercato meno curato di quello dei farmaci, altri destinatari di pay-back al 50%. Basti pensare a due cose: primo, i contratti con le centrali regionali sono pluriennali, le regioni fin qui non hanno mai fatto sapere il momento in cui entrano in deficit (e quindi le aziende non possono quantificare il rischio di reipiano) né hanno fatto sapere i settori specifici per cui rischiano il deficit, se sul bisturi o sul dispositivo di protezione.

In questi giorni alla Camera la commissione bilancio alla Camera discute un emendamento al decreto-legge Enti per rivedere entro il 2026 la normativa sul pay-back di concerto con Agenas e Regioni. Il tavolo sarà chiamato ad attuare un programma di Health technology assessment (Hta) e ad agire “in coerenza” con i livelli di finanziamento del Servizio sanitario (quelli programmati nei documenti del governo). Ma di qui al 2026 chi paga oggi potrebbe non esserci più e se è una multinazionale straniera potrebbe lasciare l’Italia per vedere di rientrare in tempi migliori se ci saranno. Lasciare l’Italia significa non rifornire più gli ospedali del Servizio sanitario nazionale che rischierebbero di trovarsi anni dietro rispetto al privato. Un problema di cui terrebbero conto anche medici ed infermieri “in carriera”, che se ne andrebbero. Il Ministero della salute ha avviato un tavolo tecnico con 30 esperti di governo, delle Regioni e tecnici (medici, economisti, giuristi, ingegneri clinici). Si tratta, forse, di un primo embrione di quella che sarà una nuova agenzia, ovvero un organo Aifa od Agenas o ministeriale “interno” dedicato al tema. Ma nasce soprattutto per salvare il salvabile, e cioè una filiera produttiva decisiva per la sanità. Il “collegio” per ora ha durata annuale, non prevede gettoni di presenza né rimborsi spese, né nuovi oneri per la finanza pubblica. Forse qui un minimo investimento non guasterebbe.

TAG: PAYBACK

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