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Intervista

12 Luglio 2024

Attualità e prospettive del sistema sanitario in Italia. L’intervista a Francesco Longo (Cergas Bocconi)

Francesco Longo docente alla Sda Bocconi, direttore del Cergas e componente del Consiglio superiore di sanità, intervistato da Giuseppe Tandoi per Punto Effe parla delle prospettive del sistema sanitario italiano. Ecco l’intervista integrale


Attualità e prospettive del sistema sanitario in Italia. L’intervista a Francesco Longo (Cergas Bocconi)

Francesco Longo docente alla Sda Bocconi, direttore del Cergas e componente del Consiglio superiore di sanità, intervistato da Giuseppe Tandoi per Punto Effe parla delle prospettive del sistema sanitario italiano. Ecco l’intervista integrale.

A sei anni e mezzo dall’ultima intervista, professore: lo “stato di salute” del nostro Ssn è migliorato o peggiorato?
Il nostro Servizio sanitario nazionale è sufficientemente efficiente. Il problema è il finanziamento, che corrisponde al 6,3% del Pil in un Paese che è il secondo più vecchio del mondo. Il sistema britannico, che è simile al nostro, si attesta sul 9% del Pil, con una popolazione più giovane della nostra; in Francia e Germania si viaggia sul 10%, ma i loro sistemi sono diversi.

Poche o tante, le risorse, sono spese bene?
Relativamente bene, se consideriamo che il 38% degli italiani ha una patologia cronica. Alla fine, si tratta di scelte politiche. Recentemente, per esempio, si è preferito finanziare con oltre cento miliardi il bonus 110% piuttosto che investire in sanità. Ora ci troviamo nella condizione di una famiglia di quattro persone che vuole fare dieci giorni al mare spendendo duemila euro…

Bella metafora…
Il problema è che a destra come a sinistra si parla ancora di Ssn come sistema universalistico, che in realtà, viste le risorse impiegate, non è più. Faccio un esempio, da alcune ricerche fatte in Regioni del nord risulta che circa la metà delle ricette Ssn nelle mani dei cittadini non viene “consumata”. In pratica il Ssn prescrive molto di più di quello che è in grado di produrre. Un paziente deve fare una risonanza entro tre mesi? Ha la ricetta in mano ma una prenotazione entro i tre mesi non la trova mai.

E a quel punto?
A quel punto gli italiani si dividono in tre categorie, con percentuali che variano da regione a regione. Una categoria che paga, una che aspetta, una che rinuncia. L’Istat ci dice che nel 2022 il 50% delle visite specialistiche ambulatoriali è stata pagato privatamente; se poi si parla di accertamenti diagnostici la quota è del 30%. Tirando le somme il nostro Ssn, che si dice universalistico, tutela le cure ospedaliere, le cure primarie, la spesa farmaceutica ma ha praticamente abbandonato l’assistenza ambulatoriale. Bisognerebbe innanzitutto fare chiarezza.

In che senso?
Si dovrebbe dire chiaramente ai cittadini che si è scelto, vista l’esiguità delle risorse, di fare pagare loro le prestazioni meno costose. E invece si continua a parlare di universalità delle cure e a creare una confusione informativa che ha gravi risvolti sociali.

Ovvero?
Le statistiche ci dicono che un paziente cornico è in buona salute nel 70% dei casi se è laureato, solo nel 30% dei casi se ha la quinta elementare. Chi è più istruito si protegge meglio, chi non lo è non si sa orizzontare invece in un panorama così confuso. Poi c’è un’altra questione.

Quale?
Il 38% degli over 65 sono cronici. Bene, il tasso di aderenza alle terapie farmacologiche si aggira attorno al 50-60%. Non abbiamo ancora preso coscienza del fatto che il controllo dell’aderenza è fondamentale per la gestione delle cronicità, tanto più in un’epoca nella quale tale controllo si può esercitare con strumenti digitali, senza grandi costi economici. Teniamo presente che la spesa per i cronici è il 70% di quella totale Ssn. C’è poi una ulteriore riflessione da fare, sui Medici di medicina generale.

Dica…
Oggi i Mmg sono tutti “massimalisti”, ovvero hanno circa 1.500 pazienti. Di questi 600 sono cronici: se ognuno di essi andasse in ambulatorio una volta al mese, per il medico sarebbero 600 accessi al mese, ovvero 30 accessi al giorno. Se una visita durasse 15 minuti, sarebbero sette ore e mezza soltanto per i cronici, senza contare, cioè, tutti gli altri pazienti. Cosa succede allora? Succede che due terzi delle interazioni con l’Mmg avvengono da remoto, sia su richiesta del paziente che per prassi consolidata del medico, che altrimenti non potrebbe gestire tutto il carico di lavoro quotidiano. Si calcola che in media un Mmg prescriva qualcosa a 50 persone diverse al giorno, che fanno 250 a settimana e mille al mese. Volumi di attività che per forza di cose devono essere svolti in buona parte digitalmente. Siamo già in un sistema di telemedicina. Non molto diversa la relazione con lo specialista: anche lì il paziente ricorre spesso al messaggio telefonico o alla mail per chiedere un parere rapido. Un sistema che in sé non è sbagliato ma un po’ artigianale.

Quali sono le controindicazioni?
Il Mmg che ha optato per la comunicazione Whatsapp, cioè una comunicazione istantanea, è subissato di richieste e rischia il burnout.

Si parla ormai tutti i giorni di carenze di personale del Ssn…
Non è proprio così, perché rispetto al 2019 il personale, soprattutto quello medico, è aumentato. E nonostante questo nel 2023 non abbiamo raggiunto la produttività del 2019, in termini di prestazioni diagnostiche, specialistiche eccetera. Al sud il ritardo è maggiore.

Eppure si lamenta la carenza di medici.
È tipico di certi politici parlare per slogan e non partendo dai numeri. La verità è che oggi abbiamo 19.000 iscritti all’anno alla facoltà di Medicina su 100.000 medici del Ssn. Siamo fuori scala, questo significa che tra alcuni anni avremo una pletora di medici, stile anni Settanta, e che molti di essi dovranno emigrare. Ho cercato di spiegare queste cose in Conferenza Stato-Regioni senza avere grande ascolto. In compenso si è deciso di abolire il numero chiuso a Medicina, mentre di medici, in prospettiva, ne serviranno la metà. Sono cose che faccio presente da tempo, anche all’interno del Consiglio superiore di sanità, di cui faccio parte ma la politica ha la sua agenda…

E la polemica sui test di ingresso a Medicina, astrusi e poco connessi con gli studio che si va ad affrontare?
Polemica inutile, è una forma di preselezione che c’è in tutto il mondo.

Pubblico-convenzionato-privato-sanità integrativa… il quadro è molto articolato: come renderlo più prossimo ai cittadini, ora che curarsi pare sia diventato, per alcuni strati sociali, un lusso?
I rapporti tra pubblicato e privato accreditato sono già ben regolamentati, al di là del fatto che alcune Regioni li gestiscono meglio di altre, come Toscana, Emilia-Romagna e Lombardia. Il vero nodo è la spesa privata delle famiglie, ma anche qui va fatta una precisazione.

Quale?
La spesa privata non è vero che sta aumentando, che è ferma 41 miliardi, come è ferma quella pubblica, che anzi rispetto al Pil andrà diminuendo nei prossimi anni.

Questo cosa significa?
In seguito alla guerra in Ucraina le famiglie meno abbienti hanno dovuto fare fronte a una inflazione che ha implicato maggiori spese per l’energia, i trasporti e la casa. E la sanità è rimasta da parte. Al contrario l’Istat ci segnala che le famiglie più benestanti, finita la pandemia, hanno deciso di spendere di più per lo svago: ristoranti, alberghi vacanze…

E l’interazione tra pubblico e sanità integrativa?
Prima di tutto rappresentanti della sanità pubblica e delle compagnie assicuratrici dovrebbero mettersi attorno a un tavolo e ragionare su chi fa cosa, per evitare inutili sovrapposizioni: capita invece che in una polizza aziendale o in un fondo sanitario di categoria siano previste prestazioni di screening che già il dipendente svolge in quanto previste dal servizio sanitario regionale. Che senso ha?

E il privato puro?
In questo ambito c’è un discorso di appropriatezza e di educazione sanitaria. Un cittadino deve essere informato correttamente, deve sapere quando gli esami diagnostici sollecitati dalle strutture private non sono strettamente necessari: ecografie mensili definite necessarie eccetera. Tanto più che il 90% della spesa privata non è intermediata, il cittadino paga di tasca propria. Molta spesa, quindi, è inappropriata.

Tirando le somme?
In Italia su 23 milioni di lavoratori 10 milioni sono partite Iva o piccole imprese. Questo significa che quasi la metà dei lavoratori è automaticamente esclusa da ogni forma di sanità integrativa di carattere aziendale, a meno che non stipuli una polizza privata.

Soluzioni?
Il vero obiettivo dovrebbe essere quello di aumentare la spesa aggregata: quella finanziata dalla fiscalità generale, ovvero il Fondo sanitario nazionale; quella sostenuta dai fondi aziendali; e infine quella privata. Ma quest’ultima è la soluzione peggiore perché, come accennato, c’è un grande tema di appropriatezza e di difesa dei diritti del cittadino, che a volte spende di tasca propria ben oltre il necessario.

Rilancio della sanità territoriale nel post covid e Pnrr: giusto puntare sulle case di comunità?
In teoria sì e, a quanto pare, entro il 2026 tutte le case di comunità previste saranno pronte all’uso, cioè ci saranno le strutture fisiche. Il vero problema è che non abbiamo un numero sufficiente di infermieri da destinarvi. Un po’ perché il nostro è storicamente il Paese dove abbondano i medici ma scarseggiano gli infermieri. Un po’ perché oggi sul mercato del lavoro non se ne trovano, in quanto mancano le vocazioni: in molte regioni per ogni posto abbiamo a disposizioni 0,75 infermieri. In pratica oggi mandiamo in pensione molti più infermieri di quanti ne fornisce l’università. In media ogni anno vanno in pensione 14.000 persone e si candidano a prenderne il posto non più di 10-12.000. Un progressivo impoverimento del personale infermieristico che avrà ripercussioni sulla operatività di Case e Ospedali di comunità previsti dal Pnrr.

L’assessore alla Salute di Regione Lombardia Bertolaso sta cercando di reclutarli in America Latina…
Ottima l’idea ma dovrebbe esserci un piano nazionale di reclutamento, che faccia capo al Ssn, è assurdo che le Regioni si facciano concorrenza tra di loro. Per intenderci, non si tratta solo di convincerli a trasferirsi in Italia, deve esserci alla base un programma nazionale che preveda l’insegnamento della lingua, l’aggiornamento delle competenze e, non ultimo, risolva le questioni logistiche, come quella dell’alloggio.

Ma con questa forte regionalizzazione in materia di sanità è possibile un coordinamento centrale?
Bisogna trovare soluzioni ad hoc, per il beneficio di tutti. Per esempio, si potrebbe cercare il supporto delle agenzie di lavoro interinale che, almeno per i primi due anni, potrebbero evitare problemi legati alla piena adesione ai contratti collettivi nazionali. Tanto più che le maggiori tra queste agenzie sono di carattere globale e possono operare oltre che nel reclutamento anche nelle attività collaterali di formazione e di carattere logistico. Servono 10.000 infermieri all’anno? Andiamo a prenderli all’estero in modo organizzato e, se necessario, stringendo anche accordi con i governi di quei Paesi. 

TAG: CERGAS

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