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Farmaci

13 Dicembre 2022

Decreto tariffe, lo sblocco del nomenclatore è prioritario nel Rapporto di Cittadinanzattiva

Le associazioni dei pazienti afferenti a Cittadinanzattiva chiedono lo sblocco del nomenclatore delle prestazioni ambulatoriali (Decreto Tariffe) e argini all’autonomia differenziata delle regioni. Lo fanno alla presentazione del 20° Rapporto sulle politiche della cronicità, presentato dal CnAMC


Decreto tariffe, lo sblocco del nomenclatore è prioritario nel Rapporto di Cittadinanzattiva

Le associazioni dei pazienti afferenti a Cittadinanzattiva chiedono lo sblocco del nomenclatore delle prestazioni ambulatoriali (Decreto Tariffe) e argini all’autonomia differenziata delle regioni. Lo fanno alla presentazione del 20° Rapporto sulle politiche della cronicità, presentato dal CnAMC, il coordinamento nazionale delle circa 100 associazioni di malati cronici e rari della storica Associazione di pazienti
Le malattie croniche restano un punto dolente: un malato su tre aspetta oltre 10 anni per arrivare alla diagnosi; tra chi soffre di una malattia rara, un paziente su quattro deve spostarsi dal proprio luogo di residenza per curarsi. Due terzi devono pagare di tasca propria il supporto psicologico. Il titolo del Rapporto –frutto di interviste a 871 pazienti ed a 86 Presidenti di associazioni di patologia cronica o rara– è “Fermi al Piano”: si tratta del Piano nazionale della cronicità, di cui quasi il 36% delle associazioni denuncia la mancata attuazione e il 15% l’attuazione soltanto in alcuni territori. Le regioni che prevedono una presa in carico aderente al PNC sono nell’ordine Lombardia e Veneto (per il 56% dei rispondenti) Emilia-Romagna (per il 50%) seguita da Piemonte e Toscana (47%); agli ultimi posti, dal 20% in giù, sono regioni del Sud o piccole come Campania (19%); Abruzzo, Sardegna, Sicilia e Umbria (9%); Basilicata, Calabria, Molise (3%). Le regioni che più sembrano applicare percorsi diagnostico-terapeutico-assistenziali (Pdta) adeguati sono la Lombardia (per il 70%); la Toscana, il Veneto, l’Emilia-Romagna (per oltre il 52%); il Lazio (quasi 48%); ultimi, la Sicilia (17%); il Molise e Umbria (13%), la Basilicata e la Calabria (circa 9%). Dal Rapporto emerge una salute “disuguale”.

I punti discriminanti, a detta di 4 associazioni su 5, sono nelle modalità di gestione delle prenotazioni e dei tempi di attesa, quanto nell’accordare un sostegno psicologico ai pazienti o nel riconoscere invalidità, accompagnamento ed handicap, sia nella presenza o meno di Centri specializzati e di Rete. Il 73% accusa la diffusione ineguale di telemedicina, teleconsulto, monitoraggio online e l’assenza in alcune aree di percorsi di cura od assistenziali; il 50% indica come punto dolente l’accesso all’innovazione. Anna Lisa Mandorino, Segretaria generale di Cittadinanzattiva pone l’accento, oltre che sullo sblocco dei Livelli essenziali di assistenza fermi al 2017, sull’autonomia differenziata «che - per garantire uguali diritti per tutti - richiederebbe, come previsto in Costituzione, adeguati contrappesi preventivi, in mancanza dei quali è impossibile anche solo parlarne». Tra i pazienti intervistati, cronici o rari, oltre uno su tre ha atteso più di 10 anni dalla comparsa dei sintomi alla diagnosi e quasi uno su cinque da 2 a 10 anni. I motivi dei ritardi sono, per 2 su 3, la scarsa conoscenza della patologia da parte del medico curante, per oltre la metà la sottovalutazione dei sintomi, per il 45% la mancanza di personale specializzato sul territorio, per quasi il 26% le attese. Solo il 39% dei malati rari è in cura presso un centro della rete istituita ad hoc nel 2001; il 28% non sa se il centro fa parte di una rete di malattie rare; il 18% dice che non ne fa parte e il 14% non è in cura presso nessun centro. Più del 60% dei malati rari non riceve cure standardizzate sul territorio e un ulteriore 17,5% si affida ad un centro privato. Inoltre, circa il 27% è costretto a spostarsi presso un’altra regione: il 38% va in Lombardia.

Attese snervanti caratterizzano sia l’accesso alle prime visite specialistiche e agli esami diagnostici (60% degli intervistati) sia i controlli (55%), sia il riconoscimento di invalidità civile od accompagnamento (43%); il 67% dell’utenza paga esami di tasca propria e ancor di più (76%) lo psicologo. Si paga anche per prevenzione terziaria e parafarmaci (51%), e per l’acquisto di farmaci necessari e non rimborsati dal SSN (37%), per protesi ed ausili non riconosciuti o insufficienti (circa 36%); per la retta delle strutture residenziali (circa il 19%). Negli ultimi 12 mesi circa l’11% dei pazienti è stato coinvolto in programmi di telemedicina o e-health in particolare sui trattamenti, la prevenzione, la diagnosi e l’aderenza alle terapie. Il 53% ha attivato il fascicolo sanitario online e il 72% ha utilizzato spesso la ricetta dematerializzata, ma raramente o mai il 28%. Il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza prevede fondi per 2,8 miliardi per attivare la telemedicina in 280 ospedali entro il 2025, servendo 200 mila pazienti (previsioni Agenas), e collegare l’85% dei medici di famiglia al FSE. Solo un’associazione su dieci è stata fin qui coinvolta da Asl o Regioni in progetti derivanti dal PNRR e meno di 2 su 100 in progetti di Casa della Comunità, pur essendo quest’ultima reputata elettiva per gestire le cronicità. Oltre a monitoraggio dei Lea ed estensione uniforme del Piano Cronicità lungo la Penisola, le associazioni propongono a governo e regioni di dare priorità al recupero delle liste d’attesa, attuare (anche con lo sblocco del decreto tariffe) la legge 167/2016 sullo screening neonatale per la diagnosi precoce di malattie metaboliche ereditarie, emanare i decreti attuativi previsti dal Testo Unico sulle malattie rare (175 /21), di coinvolgere di più i pazienti nei Pdta e nei progetti locali.

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