sanità
14 Dicembre 2023Un “vero” PHMS è una piattaforma software di piuttosto complessa realizzazione e di altrettanto problematica messa in operatività: fare Population Health Management significa innanzitutto rivoltare come calzini gli attuali processi di gestione della sanità territoriale, cambiando letteralmente paradigma terapeutico
Alzi la mano chi non ha mai sentito parlare di Population Health Management.
Nessuno, ovviamente.
Adesso, alzi la mano chi – qui in Italia – ha potuto vedere e toccare con mano una realizzazione pratica del Population Health Management.
E anche qui, molto probabilmente, di mani alzate non ce ne saranno.
Perché il passaggio dalla teoria di letteratura e dalle slides dei consulenti strategici allo sviluppo di un PHMS che sia “per davvero” un PHMS e non una semplice rivisitazione di vecchi software gestionali di gestione del Distretto, arricchita dalla capacità dei marketing men delle software house, non è cosa già veramente accaduta.
Volendo essere precisi: è cosa parzialmente accaduta in Toscana e in Veneto, dove si è lavorato molto per potenziare il Territorio creando le precondizioni abilitanti a partire dall’organizzazione e dall’allocazione di risorse finanziarie di rilievo. Ma il cammino che porta alla meta finale è ancora lungo e passa in gran parte attraverso la progettazione di un sistema informativo territoriale davvero “potente”.
Il fatto è che un “vero” PHMS è una piattaforma software di piuttosto complessa realizzazione e di altrettanto problematica messa in operatività: fare Population Health Management significa innanzitutto rivoltare come calzini gli attuali processi di gestione della sanità territoriale, cambiando letteralmente paradigma terapeutico e qualsiasi abitudine consolidata, sposando in tutto e per tutto il Chronic Care Model e la medicina proattiva e collaborativa. Riuscendo, al tempo stesso, a “cambiare testa” ai cittadini, responsabilizzandoli rispetto alle loro capacità di self health management.
Facilissimo a dirsi. Un po’ meno a farsi…
Anche se i vantaggi conseguibili sono evidenti a chiunque: è davvero possibile – e ce lo dimostrano le esperienze canadesi (Stato dell’Alberta), quelle lituane, quelle statunitensi di Kaiser Permanente, e il grosso lavoro fatto in alcune zone della Gran Bretagna (in particolare, in Inghilterra), creare le condizioni per un effettivo alleggerimento dei carichi di lavoro in ospedale e – contemporaneamente – innalzare gli standard qualitativi di prevenzione, diagnosi e cura delle cronicità maggiori.
L’OMS, nel suo Paper “Population health management in primary health care: a proactive approach to improve health and well-being” (2023), identifica sedici regole base da applicare per trasformare il Population Health Management da “bello slogan” a pratica quotidiana di successo:
Sedici semplici regole, la cui messa in pratica sarà sicuramente agevolata dalla quantità di fondi PNRR che saranno destinati al potenziamento della sanità territoriale e dalla cornice normativa rappresentata dal DM 77.
Ma i problemi non mancano, soprattutto quelli relativi alla cronica debolezza dei sistemi informativi sanitari territoriali e da un gap ormai storico di interoperabilità che rende praticamente impossibile – in assenza di operazioni di radicale trasformazione – mettere in condizione gli operatori sanitari di condividere i dati e le informazioni frammentate e sparse in cento silos applicativi rigorosamente incapaci di comunicare tra loro.
Aggiungiamo anche le criticità che stanno “dietro l’angolo”, a partire dalle posizioni non ancora perfettamente chiare del Garante Privacy quando si parla di software di segmentazione e profilazione della popolazione.
Il bello, però, è che il salto di qualità DEVE essere compiuto, non fosse altro che per rispettare gli impegni progettuali che l’Italia si è presa verso l’Unione Europea quando ha “promesso miracoli” grazie ai fondi PNRR.
E DEVE essere compiuto anche perché – volenti o nolenti – il DM 77 è chiaro e cogente: il SSN DEVE potenziare il territorio e garantire salute a una popolazione sempre più affetta da cronicità complesse, e per farlo non può fare altro che governare per davvero decine di milioni di pazienti.
Ci aspetta un lungo (e complesso) lavoro.
Partendo dalla realizzazione di un’infrastruttura di interoperabilità del dato sanitario e clinico capace di azzerare le attuali difficoltà nel condividere informazioni tra operatori afferenti a strutture differenti (le varie aziende sanitarie e ospedaliere, i distretti, le strutture private convenzionate, i MMG/PLS, le Farmacie, eccetera).
La seconda stazione di questo “calvario” del PHM è quella dell’analisi dei dati: dovremo poter disporre di strumenti capaci di considerare l’intera popolazione di assistiti (a livello regionale, o per ciascuna ASL) potendola segmentare e profilare per patologia e stadiazione, e – successivamente – riuscendo a pianificare interventi mirati sui singoli segmenti e profili. Il passaggio successivo è la personalizzazione del percorso diagnostico, terapeutico e assistenziale: medicina personalizzata.
I dati ci sono, e ce ne saranno sempre di più. Si tratta di saperli mettere insieme e analizzare in profondità, facendoci aiutare dall’intelligenza artificiale e dalle tecniche consolidate di data mining.
La terza stazione è quella del Cloud: quando tutti i nostri sistemi informativi saranno capaci di interoperare, diventerà fondamentale metterli in un posto raggiungibile da tutti gli attori coinvolti nel sistema. E questo posto non può essere che il Cloud.
Si mettano il cuore in pace quegli ancora troppi addetti ai lavori a cui piace maledettamente tanto avere i server in casa.
La quarta stazione è quella della relazione col cittadino/assistito/paziente, basata su un serio “patto tra le parti”. Trattiamo i pazienti come se fossero “clienti”, fornendo qualità in cambio di responsabilità e aderenza alla terapia.
La quinta stazione ha a che fare con le abitudini dei medici: ingredienti fondamentali del Population Health Management sono la proattività degli operatori sanitari (“se Maometto non va alla montagna…”) e la predisposizione dei medici a lavorare sempre meno a livello individuale e sempre più in team. E, anche qui, le tecnologie giocano un ruolo centrale: dovremo sviluppare e diffondere piattaforme di Clinical Collaboration capaci di supportare questo lavoro di squadra tra operatori sanitari e pazienti.
La sesta stazione è la casa del Paziente: la telemedicina diventa una componente esiziale di un vero Population Health Management. Le case dei pazienti, le RSA e tutte le altre strutture domiciliari devono diventare luoghi della cura.
La settima e ultima stazione è posizionata negli uffici delle Direzioni Strategiche delle aziende sanitarie e ospedaliere, cui competono due sfide.
La prima è relativa alla quantità e qualità di commitment rispetto all’effettiva attuazione della trasformazione della sanità territoriale: ci si deve credere fino in fondo.
La seconda ha a che fare coi budget destinati all’innovazione tecnologica e di processo: coi fichi secchi, come dice il saggio, non ci si sposa.
Rispetto a quello vero, questo Calvario ha la metà delle stazioni.
L’auspicio (e l’augurio a tutto il SSN) è quello di riuscire a farcela senza finire crocefissi a causa di promesse fatte e non mantenute.
Noi speriamo che ce la caviamo…
Post-Scriptum
Ho omesso (volutamente) di parlare della stazione ottava, quella del Garante Privacy: qui la partita deve diventare politica, e la politica deve assolutamente far capire ai “privacysti” che l’accesso ai dati sanitari e clinici da parte degli operatori sanitari non può essere complicato a dismisura, e che il Paziente perde la Pazienza quando – già sufficientemente scocciato di suo dall’essere malato – gli chiediamo di firmare consensi come se non ci fosse un domani. Facciamo un consenso “tombale” (non prendete alla lettera l’espressione che ho usato, suona male…) grazie al quale al Paziente chiediamo una sola volta nella vita di firmare un documento che tanto non leggerà mai, non essendo scritto in un linguaggio comprensibile ai più), rendendo tutto più facile.
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