Governo e Parlamento
07 Novembre 2023 Rilanciare il servizio sanitario con un mega-investimento o affidarsi per l’offerta di prestazioni al binomio pubblico-privato? La bilancia pende ormai per la seconda risposta. A porre la domanda nella sua lettura in avvio dell’incontro “SSN al bivio: pubblico o privato?” organizzato a Roma da Federchimica, è il presidente Gimbe Nino Cartabellotta
Rilanciare il servizio sanitario con un mega-investimento o affidarsi per l’offerta di prestazioni (e di coperture assicurative) al binomio pubblico-privato? La bilancia pende ormai per la seconda risposta.
A porre la domanda nella sua lettura in avvio dell’incontro “SSN al bivio: pubblico o privato?” organizzato a Roma da Federchimica, è il presidente Gimbe Nino Cartabellotta. Ospiti, medici di famiglia e farmacisti, cioè i protagonisti dell’assistenza territoriale che si vorrebbe riformare con il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. In realtà, come spiega Cartabellotta, i 15 miliardi del PNRR a poco servono per un paese che ha tagliato i fondi alla sanità di 37 miliardi nell’ultimo decennio, e che nel 2010 viaggiava alle medie di finanziamento OCSE mentre oggi per riagguantare quelle medie dovrebbe mettere quasi 50 miliardi di euro. La spending review post 2011 ha ucciso il servizio sanitario, le risorse contro il Covid nel 2020 hanno giusto fatto fronte alla pandemia e non sono servite per reinvestire, ora si riparte come prima, finanziamenti sotto il tasso inflattivo. Ma è pericoloso. Il Presidente della Fondazione Gimbe ricorda due cose: primo, fino a prova contraria sia i finanziamenti dei contratti di medici e comparto sia la lotta alle liste d’attesa, cioè i due obiettivi delle politiche sanitarie in manovra, attingono ai 3 miliardi stanziati dal governo che non pareggiano certo l’inflazione; secondo, oggi solo al Nord si offrono ai residenti i livelli di assistenza sanitaria richiesti: che accadrà con l’autonomia differenziata? Tema gregario, la riforma dell’assistenza territoriale: inflazione e ritardi sulla tabella di marcia fanno sì che ora con i 15 miliardi del PNRR possiamo permetterci non più 1250 case di comunità ma 936, non più 400 ospedali di comunità ma 304, non più 600 centrali operative ma 524. È difficile innescare una rivoluzione che riequilibri i rapporti fra ospedale e territorio e riporti negli ospedali di comunità i posti letto tagliati nelle strutture pubbliche.
Ne è cosciente Claudio Cricelli presidente della Società di Medicina generale e medico di famiglia, le cui parole sono come pietre. Uomo profondamente di sinistra, che brindò all’indomani del varo del Servizio Sanitario nel 1978, Cricelli dice oggi: «Con le compatibilità fissate in Europa e con l’attuale crescita del prodotto interno lordo dobbiamo abituarci ad un rapporto tra spesa sanitaria e Pil del 6,3%. Questo significa che non si può pensare ad un solo pilastro per le cure sanitarie, ma occorre far convivere sanità pubblica, spesa sanitaria privata intermediata e out of pocket (cioè, diretta del cittadino ndr). Posto che servono politiche di integrazione per i tre diversi canali di spesa. Quanto alla medicina generale, non si fa con le case di comunità hub. Il 92% dei mmg sta a meno di 500 metri di raggio per i 92% degli italiani. Si pensi piuttosto a trasformare le case di comunità spoke e i 56 mila studi convenzionati esistenti affinché offrano cure di media intensità e diagnostica. La medicina del futuro è pensata per essere sempre più vicina a fasce di popolazione con bisogni diversi».
Fiorenzo Corti, vicesegretario Fimmg, conferma: «È necessario disegnare un modello di medicina generale che si adatti ai territori, differenziando i bisogni delle metropoli da quelli delle aree sparse, e puntare su un medico che come status giuridico resti a partita Iva». E ricorda l’esperienza delle società di servizio della medicina generale in Lombardia: 2,8 milioni di inoculi di vaccino Covid eseguiti. C’è un’imprenditorialità del medico di famiglia da salvaguardare. Sempre in tema di imprenditorialità, spicca l’esperienza dei farmacisti: il Presidente Fofi Andrea Mandelli e il segretario di Federfarma Roberto Tobia, ricordano come a fare da volàno per i servizi alla popolazione in pandemia sia stata la voglia di 18 mila farmacie private e 1600 pubbliche di mettersi in gioco senza snaturarsi. La conclusione di Corti è in linea con questo pensiero: «Portare alla dipendenza i medici di famiglia oggi non farebbe un favore alla popolazione».
Posto che tutti considerano la salute un obiettivo primario senza il quale il paese non cresce, i politici intervengono con sentimenti diversi verso la manovra Meloni per la sanità: finanziamenti scadenti per le opposizioni, efficaci per la maggioranza. Ugo Cappellacci presidente Commissione Affari Sociali della Camera (Forza Italia) dice che c’è posto sia per il pubblico sia per il privato, certo serve che siano più complementari in un quadro di crescita dell’offerta di cure. Anche Gian Antonio Girelli (commissione affari sociali, Pd-IdP) invita ad uscire dallo scontro ideologico tra pubblico e privato ma riconosce che il regionalismo differenziato «non può più accelerare sulla sanità». Il timore, con l’autonomia differenziata, è che le regioni ricche concludano contratti più appetibili a livello locale attraendo personale dalle altre regioni ed impoverendo ancor più il Sud.
Lo dice la vicepresidente del Senato Maria Domenica Castellone, oncologa, che sottolinea poi come sia i soldi del PNRR sia quelli sul fondo sanitario siano mal spesi. I primi dovevano rimediare a una carenza di 70 mila infermieri, 20 mila medici, 71 mila letti, 46 mila operatori persi dal SSN; i secondi – cioè, una spesa sanitaria da portare ogni anno al 7% del Pil– dovevano abbattere liste d’attesa che oggi sono chiuse, «le strutture usano anche la richiamata telefonica per spostare di volta in volta in avanti l’appuntamento»; e la medicina generale andava portata a dipendenza per coordinarsi con il resto della sanità. Insomma, c’è tanto da fare.
Infine, la senatrice Elena Murelli (Lega, relatrice del Ddl Cantù che tiene i mmg nel regime libero professionale) spiega che lo stanziamento in legge di bilancio cresce di più della media dei tempi ante-Covid. E dell’autonomia difende il principio secondo cui possono esservi in Italia centri altamente specialistici decentrati senza che ciò incida sfavorevolmente sui livelli essenziali di assistenza.
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